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Primo amore

Riflessioni psicologiche sulla violenza di genere

A una prima lettura, ciò che appare incomprensibile è lo stare della donna all’interno di un rapporto maltrattante: la porta d’uscita è a un passo, il cellulare è in tasca ma quella porta non viene aperta per fuggire via, né il cellulare viene utilizzato per condividere e chiedere aiuto. Nel film “L’angelo sterminatore” di Buñuel un gruppo di esponenti dell’alta borghesia messicana si riunisce in una villa per cenare, rimangono tutta la notte insieme e al mattino dopo, quando decidono di andarsene, si rendono conto di non poter uscire…
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James Hillman, uno dei massimi allievi di C. G. Jung, chiama il pensare per immagini “fare anima”: le immagini aprono le porte della mente, permettono all’anima di trovare le parole che meglio esprimono l’incontro fra pensieri ed emozioni.

Si fa spazio nella mente la scena del film Primo amore di Matteo Garrone, ispirato a una storia realmente accaduta e riportata nel libro autobiografico di “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini: una giovane donna è seduta a un tavolo di un elegante ristorante; giunge il cameriere che le porta un’insalata e poggia di fronte a lei, nel posto del commensale che in quel momento non è presente, un piatto con all’interno una buona porzione di tagliatelle. La donna guarda il proprio piatto e quello davanti a lei, si gira circospetta, controlla che non arrivi il proprio partner; timorosa allunga il braccio e con la forchetta prende un pezzetto di carne dall’altro piatto, si riguarda intorno, controlla che non arrivi il partner e prende un’altra forchettata di tagliatelle.

Il viso è una tavolozza di colori emotivi: gioia per l’incontro gustoso con il cibo, che il corpo smagrito testimonia che non avveniva da molto tempo; terrore per l’imminente riapparizione del compagno; eccitazione ed euforia per l’affermazione di sé. Ciò che segue, con il rientro dell’altro commensale è drammatico: la donna pelle e ossa, prende furtivamente il piatto con le tagliatelle e scappa in cucina dove inizia a mangiare tutto ciò che trova; l’uomo la segue e cerca di fermarla ma lei urla: “ Voglio mangiare quello che voglio!!”

In questi brevi “pittogrammi” (come li chiamerebbe Antonino Ferro), troviamo, condensati, la complessità emotiva e psicologica della violenza possibile all’interno di una dinamica patologica fra una donna e un uomo che affermano di amarsi.

La storia dell’umanità è segnata da eventi e circostanze dove il femminile è stato umiliato, deturpato, ucciso dal maschile: Regilla, moglie di Erode, fu percossa fino alla morte da un liberto del marito; Artemisia Gentileschi, grande artista e autrice del capolavoro “Giuditta e Oloferne”, viene stuprata da Agostino Tassi, amico del padre Orazio e suo maestro di pittura; Anna Bolena è stata la seconda moglie di Enrico VIII, madre di Elisabetta I, condannata a morte dal marito; le sorelle Mirabal, tre coraggiose donne rivoluzionarie, massacrate nel 1960 dal regime del dittatore Trujillo ; fino a giungere alla coraggiosa Franca Rame che viene rapita e abusata da un gruppo di neofascisti.

Anche nell’ambito mitologico veniamo turbati dalla violenza sulle donne a opera di dei e semidei: da Zeus, con i suoi insaziabili appetiti sessuali, ad Ade che rapisce Persefone a Dioniso che lega mani e piedi Aura per poi abusarne.

Se nel mito, tuttavia, abbiamo una rappresentazione immaginifica di quanto sia psicologicamente e umanamente pericoloso la non integrazione del maschile con il femminile; nella quotidianità dei rapporti umani, il non rispetto della soggettività del femminile assume forme laceranti.
Perché? Quali dinamiche si attivano e a partire da quali esperienze prendono forza?

Nonostante la lunga formazione professionale, davanti all’orrore, ai lividi, ai volti tumefatti si rimane sconcertati, addirittura frastornati, perturbati.
Eppure laddove sembra prevalere il non-senso e l’impensabile, in realtà a un esame più attento e complesso, che tenga conto dei tanti livelli di significazione, tentativi interpretativi sono possibili.
Potremmo muoverci lungo le strade della sociologia, della antropologia, in quelle profonde della mitologia ma il territorio che quotidianamente calpesto è quello della psicologia e lì andremo, senza presunzione di saturare la questione. Bion direbbe: “La réponse est le malheur de la question”.

A una prima lettura, ciò che appare incomprensibile è lo stare della donna all’interno di un rapporto maltrattante: la porta d’uscita è a un passo, il cellulare è in tasca ma quella porta non viene aperta per fuggire via, né il cellulare viene utilizzato per condividere e chiedere aiuto.

Nel film L’angelo sterminatore di Buñuel un gruppo di esponenti dell’alta borghesia messicana si riunisce in una villa per cenare, rimangono tutta la notte insieme e al mattino dopo, quando decidono di andarsene, si rendono conto di non poter uscire dall’edificio anche se non è presente alcun impedimento fisico. Si verifica una situazione di stallo, una sorta di paralisi mentale, emotiva, psicologica, comportamentale come accade nella vittima di maltrattamento: rimane!

Le ricerche longitudinali e le relazioni cliniche evidenziano che le donne che si trovano intrappolate in un rapporto patologico presentano un passato relazionale segnato dal disinteresse, dall’abbandono, dal non riconoscimento, dalla poca cura; in particolare l’esperienza del maschile in famiglia è segnata dalla sopraffazione, dall’umiliazione, fino al maltrattamento/abuso fisico e/o psicologico.

Questo passato popolato da fantasmi feroci e dispotici influisce sulla scelta del proprio partner che presenta intimamente un nucleo personologico caratterizzato da aspetti narcisistici e grandiosi. L’incastro avviene in un attimo: il Sé fragile e depresso della donna si lascia animare da quello grandioso e onnipotente dell’uomo; la donna porta un’immagine di sé-vittima, l’uomo si è identificato con quella di sé-carnefice.

Ma tutto questo ancora non rende conto appieno della motivazione che spinge la donna a rimanere all’interno di un rapporto violento e distruttivo. Ci viene in aiuto lo psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi con il meccanismo di difesa della “identificazione con l’aggressore”: la vittima annientata dal pericolo, dalla minaccia, dalla violenza elimina la propria soggettività e per sopravvivere diviene esattamente come desidera il suo aggressore. Erroneamente si convince che se si adeguerà completamente al volere dell’altro, sarà salva. I sensi si affinano, la vittima acuisce la propria capacità di prevedere le aspettative del proprio carnefice divenendo remissiva fino alla completa passività.

È ciò che accade al bambino che subisce maltrattamenti e/o abusi: prevede ciò che il carnefice vuole, lo esegue senza opporre la minima resistenza e una parte si identifica con lui arrivando a investirlo affettivamente.
Purtroppo insieme alla relazione, il bambino mette dentro di sé anche gli aspetti sadici e violenti del proprio carnefice, facendoli propri, con la possibilità di riproporli nei rapporti futuri.

Il bambino con l’adulto, così come la donna nella relazione con il proprio partner, viene oggettivato, perde le caratteristiche dell’intenzionalità, della vitalità, della emotività tipiche del soggetto e diviene materiale modellabile a piacimento.
Il passato non si scioglie come neve al sole, ritorna come uno spettro da accogliere, conoscere e propiziarsi: “ricordare, ripetere e rielaborare” affermava Sigmund Freud, per poter ricucire le ferite del trauma e integrarle all’interno della storia relazionale.

È necessario dare spazio e tempo, accostarsi con delicatezza all’anima ferita, disinfettare la lacerazione ancora sanguinante e, dapprima nel silenzio e poi con le parole, provare a significare gli eventi dolorosi della vita della vittima per costruire una storia, una nuova narrazione che non può cancellare il dolore ma può lenirlo, può tenerlo, può trasformarlo in linfa vitale per sé e per le generazioni che verranno dopo.

Nella stanza, insieme al paziente si prova a stabilire una relazione nutriente, rispettosa dei confini e dei bisogni, supportiva e significante dove poter fare esperienza di un rapporto nel quale si è pensati e non sottomessi, visti come interlocutori e non come catini dove gettare le proprie scorie.
La relazione terapeutica può essere interiorizzata e utilizzata dal paziente come rappresentazione interna, come base per scegliere chi sa davvero camminare accanto a un altro essere umano con rispetto e cura, non affamandolo e spolpandolo della sua vitalità ma alimentando il suo desiderio di esserci in questo mondo a modo proprio.Per concludere con la speranza nella possibilità che il maschile e il femminile possano incontrarsi e nutrirsi a vicenda nel rispetto delle proprie differenze, voglio utilizzare il potente racconto dal forte valore immaginifico della “Donna scheletro” riportata nel magico libro “Donne che corrono coi lupi” di Pinkola Estes: “Ma quando accese la lampada all’olio di balena, eccola, lei era lì, ed egli cadde sul pavimento di neve con un tallone sulla sua spalla, un piede sul suo gomito. Non seppe poi dire come fu, forse la luce del fuoco ne ammorbidiva i lineamenti, o forse perché era un uomo solo. Fatto sta che sentì nascere come un sentimento di tenerezza, e lentamente allungò le mani sudicie e prese a liberarla dalla lenza. “Ecco, ecco”, prima liberò le dita dei piedi, poi le caviglie. E continuò nella notte, e la coprì di pellicce per tenerla al caldo. Cercò la pietra focaia e accese il fuoco.

Lei non diceva una parola – non osava – perché altrimenti quel cacciatore l’avrebbe presa e gettata agli scogli. All’uomo venne sonno, scivolò sotto le pelli e cominciò ben presto a sognare. Talvolta, durante il sonno, una lacrima scivola giù dall’occhio di chi sogna, quando c’è un sogno di tristezza o di struggimento. E questo accadde all’uomo. La Dona Scheletro vide la lacrima brillare nella luce del fuoco, e d’improvviso sentì un’immensa sete. Si trascinò accanto all’uomo addormentato e posò la bocca su quella lacrima. Quell’unica lacrima era come un fiume, e lei bevve e bevve finchè la sua sete di anni non fu placata. Frugò nell’uomo addormentato e gli prese il cuore, il tamburo possente. Si mise a sedere e si mise a picchiare sui due lati del cuore. Mentre suonava si mise a cantare: “Carne, carne, carne!”. E più cantava più si ricopriva di carne. Cantò per i capelli e per buoni occhi e per mani piene. Cantò la linea tra le gambe, e il seno, abbastanza grande da trovarvi calore, e tutte le cose di cui una donna ha bisogno. E poi cantò i vestiti, che si togliessero dal dormiente, e scivolò nel letto con lui, pelle a pelle. Rimise il suo cuore nel suo corpo, e così si risvegliarono stretti uno nelle braccia dell’altra, aggrovigliati dalla loro notte, in un altro mondo, bello e duraturo.

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