PAURE ED ANSIE IN LETTERATURA
UN POSSIBILE E RISPETTOSO “QUADRO DIAGNOSTICO” DI DUE GRANDI LETTERATI
LUCI ED OMBRE DI ALESSANDRO MANZONI
I grandi scrittori sono bravi a celarsi dietro le metafore, le similitudini, le allegorie dei loro personaggi, ma trovando le giuste chiavi di lettura per interpretare ognuna di esse, sarà facile vedere come, tra le righe di un’opera, si cela sempre qualche tratto della personalità di colui che l’ha scritta. Si tratti di conflitti inconsci, di emozioni represse, di sentimenti e proiezioni nascoste. L’autore nutre i personaggi cui dà vita con la sua psiche, lasciandoci della stessa un prezioso quadro identificativo.
Ad esempio Manzoni non scrive nulla di biografico, nulla che possa far riferimento alla sua storia privata, ma se andiamo a conoscere alcuni episodi della sua esistenza, allora lo possiamo ritrovare al di là dei personaggi che hanno popolato la sua straordinaria produzione letteraria. Dunque lo potremo riconoscere nella solitudine e la redenzione dell’Innominato, nel coraggio di fra’Cristoforo, nella paura e nell’eterna indecisione di Don Abbondio, nella purezza e nell’onestà di Renzo Tramaglino, ma anche nell’eroica e inespressa paura del Conte di Carmagnola, di fronte alle ingiuste accuse di tradimento che pendono sulla sua testa e lo condannano a morte.
Manzoni è tutto questo, a ben pensare. Un eroe, un patriota, retto e probo sopra ogni misura, eppure al contempo così pavido e piccolo, di fronte alle sue tante paure. Di fatti, per quanto egli abbia scritto di eroi e grandi gesta, non era certo eroica la personalità che gli è appartenuta. Egli soffriva di marcati disturbi d’ansia, disturbi psicosomatici e di quella che oggi chiameremmo agorafobia, a causa della quale era costretto a trascorrere gran parte del suo tempo recluso tra le mura domestiche. Un prigioniero della propria mente, dunque, che parla di emozioni e Provvidenza, ma che nella vita reale aveva paura di uscire di casa e temeva di parlare a causa della balbuzie, difetto che gli impedì di accettare il ruolo di senatore del Parlamento subalpino offertogli nel 1848.
L’agorafobia iniziò a tormentarlo a Parigi, il 2 aprile del 1810, nella Place de la Concorde, quando, durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone e Maria Luisa, travolto dall’impeto della folla creato dallo scoppio di alcuni petardi, perse di vista la moglie, e rifugiatosi in una Chiesa cominciò a pregare l’Onnipotente di fargliela ritrovare al più presto. E quel Dio che aveva sempre rifuggito, e nel quale non aveva mai creduto, preferendo seguire gli insegnamenti razionali di stampo illuminista consegnatigli dalla madre, figlia del grande Cesare Beccaria, inaspettatamente lo esaudì.
Il Manzoni si mostrò riconoscente. Dopo la grazia ricevuta divenne un fervido cristiano, e offrì alla Provvidenza e a Dio un ruolo d’elezione in ognuna delle sue opere, dando prova di una fede che lo accompagnò sino alla fine, ma che non pose certo fine ai suoi conflitti interiori, contribuendo al contrario ad accrescerne in numero ed intensità.
Sulla scia di questo stato d’animo inquieto e conflittuale egli si risolveva a correggere continuamente le proprie creazioni, nella convinzione di aver sbagliato a comporle, di aver errato dei dati, di aver privilegiato la fantasia romanzesca rispetto alla verità storica, di aver mancato di rispetto a Dio. Dopo i Promessi Sposi cessò di comporre, convinto che inventare fosse una colpa di cui vergognarsi. Le paure aumentarono: delle malattie, dei tuoni, delle pozzanghere.
La separazione dall’oggetto materno vene probabilmente vissuta dal Manzoni con particolare disagio, seminando in lui un senso di abbandono e di angoscia inesplorabile forse dovuto alle continue partenze della madre, molto dedita a viaggi in terra francese, dove frequentava circoli illuministici e salotti letterari. Un cattivo introietto materno, dunque, e un ruolo conflittuale con i genitori, potrebbero aver causato in Manzoni quei conflitti che non ebbe mai l’opportunità di esprimere fino in fondo.
E CHE DIRE DI GIACOMO LEOPARDI?
I tratti foschi e disperati che imperano nelle opere leopardiane hanno da sempre collegato il genio letterario di Recanati ad un pessimismo cosmico, una disperazione intrusiva e senza uscita che oggi potremmo identificare nel disturbo depressivo. Complice un fisico ben poco piacente, che lo rendeva insicuro di se stesso e lo spingeva ad evitare qualsiasi relazione sociale, non si esclude che il Leopardi possa essere risultato affetto anche da disturbi d’ansia sociale; ma il tentativo di sottrarsi al mondo e alle sue dinamiche, nel poeta, era forse maggiormente attribuibile a quel senso di continuo tormento che lo assediava, alla paura del contatto esterno con un mondo che riteneva crudele e pericoloso, sempre pronto a sferrare un attacco mortale a chi osasse sperare in un lieto fine.
La notte durava anche per mesi, seminando in lui pensieri di negatività, di colpa e di solitudine che lo gettavano in un buio senza fine. Allora la poesia diventava l’unico mezzo di espressione di un pensiero che lo tormentava, fisso e immutabile come un sicario, un carnefice che lo possiede, che ha “interamente in balia”… e il senso di colpa si faceva così opprimente da spingerlo a credere che nulla, nella vita, avrebbe mai potuto redimerlo. Perché la vita stessa era una punizione, e il doverla vivere era la peggiore delle condanne. Lo potremmo definire un depresso, sì, ma forse soggetto a sbalzi d’umore tipici della depressione maniacale, o della depressione psicotica?
Non è mancato neppure chi ha attribuito a Leopardi un disturbo di Asperger, che sarebbe in grado di giustificare i sintomi di inquietudine pervasiva, le scarse relazioni sociali, il suo continuo parlare in famiglia e pochissimo con gli estranei, la sua intensa attività di pensiero che ben poco si traduceva in comportamenti attuativi, e il suo interesse smoderato per singoli argomenti, che sviscerava fino all’osso in alcuni momenti, per poi abbandonare d’improvviso per dedicarsi a tutt’altro tipo di conoscenze. Chissà.
AI POSTERI L’ARDUA SENTENZA….
CONCLUSIONI
A questo punto, definendo Leopardi un depresso, un ipomaniacale o chissà cos’altro del genere, e il Manzoni un fobico somatizzatore, vittima delle proprie opprimenti paure, qualcuno potrà pensare che si sia mancato di rispetto alla letteratura, o che, cercando di disegnare un quadro diagnostico di due artisti di tale caratura, si sia dato vita ad un’inopportuna invasione psicologica nel campo della letteratura. In tal caso potremmo rispondere che non era questo l’intento di chi ha scritto. In realtà si è solo cercato di trovare il legame che unisce le parole a chi le ha composte, la penna alla mano che l’ha mossa, e dunque lo scrittore all’uomo, cercando di trovare la differenza tra i due aspetti. Sempre laddove ne esista una.
Il tutto assumendo senza riserve il concetto psicologico secondo il quale la parola costituisce il simbolo di un’emozione, l’espressione sublimata dell’interiorità, il canale che strappa al silenzio i segreti più intimi di ciascuno; e non vi sarà nessuno che non potrà riconoscere come questo, nel letterato, riesca ad assumere i connotati di una bellezza immortale.